giovedì 29 ottobre 2009

Hanoi




Ciao :) eccomi arrivata ad Hanoi! Su consiglio di amici grandi conoscitori dell'Asia (grazie Ciunti!!!) ho preso il mio alloggio temporaneo nel vecchio quartiere di Hanoi... nonostante i motorini abbiano in gran parte sostituito le biciclette è ancora possibile girare per le vie piene di gente e cose curiose al ritmo lento del "cyclo"!

mercoledì 28 ottobre 2009

River cinema



Mi chiedo… cosa mi ha colpita di Phnom Penh, la capitale della Cambogia?
Senz’altro la quantità di persone che, ad ogni ora, ma soprattutto la sera prima del tramonto, siede sul muretto del lungofiume a prendere il fresco e ad osservare il pigro scorrere dell’acqua. In questo momento faccio parte anch’io del pubblico di questo lento spettacolo.
C’è chi è solo, chi con la famiglia o gli amici o una persona incontrata lì. Ci sono le venditrici ambulanti che si prendono un momento di sosta, il monaco che si beve un’aranciata con la cannuccia… c’è chi parla, chi sta in silenzio, chi mangia.
Però, tutti, guardano il fiume. Un po’ come quando ci si parla al cinema… comunque si continua a guardare lo schermo. Non che ci sia un gran traffico su questo fiume, qualche barca, una chiatta ogni tanto, più frequenti i cespugli verdi di certe piante galleggianti trasportate dalla corrente. Il fiume è ampio, il livello alto per le piogge monsoniche. E’ il Tonle Sap, il fiume che passa anche da Angkor e qui confluisce con il Mekong.

Un “orrore normale”

Un post difficile da scrivere. Un argomento scomodo, di quelli che in vacanza si vorrebbero evitare, non vedere. Ma un viaggio in Cambogia rende quest’argomento inevitabile e visibile.
Sihanuokville, principale città di mare della Cambogia. Pochi i turisti, bassa stagione. Spiccano, per il loro numero, i “turisti sessuali”.
Per lo più avanti con gli anni, ma ci sono anche dei giovani. Alcuni si fermano per qualche settimana, altri per dei mesi. Magari a casa c’è una moglie, probabilmente anche una vita “normale” ed irreprensibile. Numerosi anche gli “expat” (espatriati), vite alla deriva, gente che ha qualche tipo di “business” qui ma non si vede mai lavorare realmente, gente che ha comprato un passaporto cambogiano e da anni non torna in patria, gente abbruttita dall’alcol e forse anche da altro.
Sia i turisti sia gli expat si accompagnano a ragazze locali, giovani, troppo giovani. Anche la pedofilia non manca, ma per quella occorre stare un po’ più attenti e nell’ombra. Queste ragazze forse arrivano ai diciotto anni, forse.
Un “orrore normale” qui come altrove… la possibilità di comprare ed usare un’altra persona.

Faccio qualche ricerca in internet per avere un’idea più precisa della situazione… e trovo la storia di Somaly Mam, da bambina abusata e costretta a prostituirsi ad attivista famosa. Una donna coraggiosa che tenta di fare qualcosa per cambiare una situazione terribile, disumana. Ha fondato l’associazione AFESIP (Agir pour les femmes en situation précaire – agire per le donne in situazione precaria) che ora ha delle sedi anche nei paesi vicini. La sua storia è raccontata nel libro “Il silenzio dell’innocenza” edito per TEA. Mi riprometto di leggerlo al mio ritorno.
Per altre informazioni: www.somaly.org e www.afesip.org.

Mani che vedono

Il luogo non è particolarmente invitante… un cortile non troppo pulito nella periferia di Siem Reap. Preferisco il ventilatore o l’aria condizionata?
Chiedo di vedere entrambe le stanze. Fatico un po’ a distinguere l’interno, sono semibuie… decido per il ventilatore, almeno l’ambiente è più ampio. Il ragazzo che mi accompagna rimane mentre mi spoglio.
Non c’è bisogno di luce e di imbarazzo, qui.

E’ un centro massaggi gestito da non vedenti. Sembra che in Cambogia vi sia il più alto tasso di cecità al mondo, 1,25% della popolazione, vale a dire 144.000 persone. Persone escluse dall’istruzione, dal lavoro, dalla possibilità di una vita decente. Si tratta di un tipo di emarginazione “normale” in questa cultura, dove l’essere ciechi è una questione di “karma”, cioè la conseguenza in questa vita di azioni compiute in vite precedenti.

Per cercare di dare una professione ed una prospettiva di vita ai non vedenti sono nate delle associazioni per insegnare loro l’arte del massaggio. Sul fatto che questa attività possa dare un ritorno economico tale da sostenere i massaggiatori e finanziare altri progetti a favore dei non vedenti ho qualche dubbio, almeno osservando questa sede di Siem Reap. Quella del massaggio è un’attività diffusissima, in centro città ci sono decine di centri, con ragazze carine, ambienti profumati ed ovattati, luci soffuse ed un’ampia gamma di trattamenti… tutto è pensato per incontrare il gusto dei turisti occidentali. Qui ho l’impressione di essere l’unica visitatrice da tempo, l’ambiente non è molto invitante, gli operatori conoscono solo qualche parola d’inglese e l’unico massaggio offerto è quello tradizionale Khmer, cioè piuttosto “intenso”, per usare un eufemismo.

Decido che, nonostante le apparenze, è qui che voglio provare a farmi massaggiare… ho più fiducia in queste “mani che vedono” (“Seeing hands” è il nome di una di queste associazioni) piuttosto che nelle ragazzine che vedo chiacchierare e darsi lo smalto alle unghie mentre attendono clienti fuori dal loro centro massaggio in città. Per un’ora il massaggiatore si occupa solo del retro del mio corpo, collo, schiena, braccia e gambe. È molto simile al massaggio tradizionale thailandese che ho già avuto modo di sperimentare: digitopressioni seguendo dei percorsi nel corpo. Non so se il massaggio Khmer è ancora più intenso di quello Thai o è il massaggiatore ad essere particolarmente forte, fatto sta che è doloroso! Mi chiedo cosa sarà di me alla fine del trattamento. Beh, c’è un senso di indolenzimento generale che dopo qualche ora scompare, lasciando una sensazione di benessere diffusa… da riprovare! :)

domenica 25 ottobre 2009

Mr. Top Vanna

E’ da un po’ che osservo Mr. Top Vanna.
Ha “parcheggiato” la sua libreria sulla strada del lungofiume a Siem Reap, sotto uno dei grandi alberi frondosi che donano ombra e, con un aiuto da parte della brezza del fiume, frescura. La libreria è un carretto azzurro, i libri sono disposti sia sul pianale che sulle ingegnose scaffalature sui tre lati.
Mr. Top Vanna sistema i libri sugli scaffali, anche quelli più alti, gli toglie e rimette la bustina di plastica, che qui in Asia li proteggono da polvere e umidità, via via che i clienti li sfogliano.
Mr. Top Vanna conta i soldi e mi dà il resto del libro illustrato su Angkor che ho appena comprato.
Niente di strano.

La cosa strana è che Mr. Top Vanna fa tutto questo senza le mani. Le sue mani e i suoi avambracci non ci sono più, se li è portati via la mina che lui, come tanti altri qui in Cambogia, ha avuto la sfortuna di incontrare.
E’ ben organizzato Mr. Top Vanna… con il libro mi dà una fotocopia con il racconto della sua storia. Dalla disperazione iniziale, dall’idea di suicidarsi, dalla sua vita di mendicante dopo i mesi di ospedale, al lavoro e alla famiglia che è riuscito a costruirsi.
Una bella storia, di speranza nella vita che prosegue. Una storia di dignità, che si sente. Perché Mr. Top Vanna non ispira pietà ma ammirazione.

venerdì 23 ottobre 2009

Angkor Wat

Angkor Wat è il più grande, il meglio conservato, il più famoso e, sicuramente, il più visitato dei templi di Angkor.
Il primo impatto, la mattina molto presto per assistere all’alba, mi lascia perplessa. La maestosità del complesso, che sorge su un’isola quadrata in un bacino artificiale quadrato immenso, la magia delle tenue alba tropicale nella giungla che si risveglia, sono in qualche modo sminuiti e desacralizzati dalla moltitudine di turisti (di cui ovviamente anch’io ne sono parte), venditori di souvenir e caffè, affitta sedie per godere dello spettacolo comodamente seduti in prima fila.
Non credo sia la quantità delle persone a banalizzare un’esperienza del genere, ma l’attitudine. La folla, enorme ma “accordata” su un particolare evento può, anzi, creare un’energia particolare e forte, molto più forte della somma di quella dei singoli individui. Qui avverto principalmente la fruizione di un luogo famoso, da “non mancare” nel tour. Rimarrà qualche foto, magari accompagnata dal ricordo di quanto il caffè servito dall’affitta-sedie “James Bond” fosse schifoso.

Riprovo ad accostarmi ad Angkor Wat un paio di giorni più tardi, dopo essermi dedicata ai templi meno frequentati per entrare in sintonia con il luogo. Decido di andarci nel primo pomeriggio, dovrebbe essere un momento più tranquillo, e di cercare di viverlo come un enorme mandala tridimensionale.
Inizio a percorrerne le gallerie esterne, ammirandone i bassorilievi che raffigurano alcune delle scene principali delle epopee induiste, per esempio il Mahabharata e il Ramayana aventi come protagonisti le incarnazioni di Vishnu, la divinità induista in cui il re che fece erigere il monumento si identificava. Sono di grande finezza, penso alla mole di lavoro necessaria per portarli a termine.
Passo dopo passo, galleria dopo galleria, livello dopo livello, in un percorso concentrico ed ascensionale, arrivo al centro del complesso: le cinque torri che rappresentano i picchi del Monte Meru (il monte sacro a induisti, buddhisti e jainisti in quanto considerato il centro degli universi fisici, metafisici e spirituali).
Percorrere in questo modo il monumento può diventare una meditazione camminata, una forma di purificazione mentale in cui i pensieri si acquietano e si può lasciare che una forma diversa di percezione e comprensione si possa aprire… come il fiore di loto che mi viene regalato da una bambina che incontro.

Nel percorso a ritroso, dal centro alla periferia, assisto alla consultazione di un indovino da parte di una famiglia cambogiana. E’ il turno ora di una ragazzina… l’indovino le pone sulla fronte un mazzetto di testi scritti con inchiostro nero su foglie di palma. Poi ne sceglie uno e lo legge alla ragazzina. Infine, borbottando qualcosa che immagino essere preghiere e benedizioni, le allaccia un filo rosso intorno ad un polso. Riaffiorano le immagini lette nel famoso libro di Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse”…

 Lascio Angkor Wat percorrendo il lungo ponte di pietra che lo collega alla “terra ferma”. Mi soffermo a guardare i bambini che giocano in acqua, sfidandosi in tuffi acrobatici dalla riva a gradoni. Sullo sfondo il tempio enigmatico nella sua presenza attraverso i secoli e le vicende umane.


Angkor Wat fu costruito fra il 1113 e il 1150 dal re Suryavarman II. A quel tempo era chiamato “Vrah Vishnuloka”, “il sacro domicilio di Vishnu, la divinità induista in cui il Re-Dio si identificava.
Dopo la sua morte al re venne dato il nome di “Paramavishnuloka”, “colui che è entrato nel paradiso del supremo Vishnu” e il tempio divenne il suo mausoleo. Appunto perché monumento funerario gli studiosi affermano che andrebbe percorso in senso anti-orario, contrariamente a quanto avviene normalmente nei templi induisti.
Il nome attuale, Angkor Wat, significa “la città reale (che è) un monastero”. Infatti, dopo la rivoluzione religiosa voluta dal re Jayavarman VII nel XIII secolo, l’impero Khmer divenne buddhista e Angkor Wat fu trasformato da santuario Vishnuita ad un “wat” buddhista, cioè, in una termine di origine thai, in un “monastero”.
Il complesso sorge su una superficie di 2 kmq, circondato dalle acque di un bacino artificiale di almeno 200 metri di larghezza su ogni lato. Gli spazi non edificati un tempo erano occupati da edifici di legno… si pensa che almeno 20.000 persone vivessero qui per prendersi cura del re e della sua corte.

Angkor



E’ ormai il crepuscolo. La giungla risuona dei richiami delle scimmie e di uccelli a me sconosciuti. Stormi di pappagalli volano da un albero all’altro con alte strida.

Sono sola fra le rovine di uno dei numerosi templi di Angkor. La vegetazione lo ha fatto proprio, alberi enormi sono cresciuti sopra e dentro i muri, rompendoli e, nello stesso tempo, contenendone le pietre con le loro radici serpentiformi. L’impressione è che, dal connubio umano e vegetale, nel corso dei secoli sia nata una nuova architettura. L’effetto è affascinante.
Ad un tratto mi trovo in una radura, sia di rovine sia di alberi… c’è una strana luce verde che emana dalle antiche pietre coperte di muschi e licheni e dal riverbero dell’ultima luce sulla copertura vegetale…uno di quegli attimi perfetti.


Angkor era il cuore dell’immenso impero Khmer. Sviluppatosi fra il IX e il XIII sec. d.C. al suo apice si estendeva dal Vietnam alla Birmania. Incredibili opere idrauliche per regolare e immagazzinare le acque del monsone permisero di incrementare la produzione agricola e dunque la popolazione e le risorse necessarie a finanziare la costruzione dei templi.
In un articolo apparso qualche mese fa sul National Geographic lessi che l’area della città era pari a quella della Roma attuale e la sua popolazione urbana tanto numerosa da la metropoli del tempo. Ora non rimangono che i templi, costruiti in pietra.
Ogni tempio si rifletteva (e in alcuni casi ancora è così) in un bacino artificiale che aveva lo scopo pratico di garantire una riserva idrica alla città e alle coltivazioni e la funzione simbolica di rappresentare l’oceano primevo. Il risultato era una scacchiera liquida, punteggiata da templi, edifici di legno, capanne di bambù, ravvivata da mercati, traffico di carri e canoe, popolata da uomini ed animali.
Iniziò poi il tempo del declino e dell’abbandono, con il riappropriarsi dei propri spazi da parte della natura. Solo Angkor Wat, diventato un monastero buddhista, continuò ad essere frequentato. A proposito delle cause del declino di Angkor sono state avanzate diverse ipotesi… la nascita del regno Thai e le sue incursioni in Cambogia, un cambiamento climatico, la deforestazione delle colline a monte della città… chissà.
Certo è che, ogni qualvolta il passato ci consegna le vestigia di una civiltà scomparsa, non è possibile non subirne il fascino magnetico.

Tuk-tuk


Seduta su un divano ben imbottito godo della brezza che allevia la calura e ammiro il paesaggio che, lentamente, scorre via… sto viaggiando su un tuk-tuk verso Angkor. Il tuk-tuk, in questa comoda versione cambogiana è una carrozzella munita di divanetto, tettoia e tende laterali e posteriori da abbassarsi in caso di pioggia. E’ trainato da un motorino. E’ il mezzo più diffuso, a parte i motorini, per muoversi qui a Siem Reap e l’offerta sembra essere di molto superiore alla domanda da parte dei turisti, almeno in questo periodo. Camminando per le strade i conducenti mi si rivolgono continuamente… “Tuk-tuk madame?” … li vedo attendere per ore un eventuale cliente, dormire sul loro mezzo nelle ore più calde del giorno.

Ci fermiamo ad un “distributore”… due bambini al ciglio della strada con dei bottiglioni di liquido giallo ed un imbuto. Sì, purtroppo qui in Cambogia il lavoro minorile è ancora troppo diffuso. Li si vede ovunque darsi da fare in qualche modo per integrare il bilancio familiare in una nazione dove il reddito medio procapite è di 2.082 dollari l’anno, con un’enorme sperequazione fra ricchi e poveri.

giovedì 22 ottobre 2009

Nel monsone

Per la prima volta mi trovo in Indocina nel periodo del monsone umido, quello che spira da sud-ovest e porta umidità e pioggia da maggio ad ottobre. Ormai dovrebbe essere nella sua fase finale, quest’anno è stato particolarmente intenso. Un paio di settimane fa il tifone proveniente dalle Filippine ha portato morte e distruzione in Vietnam e Cambogia.

Arrivo a Bangkok alle sei di mattina, ha appena piovuto, non è troppo caldo. Rimango solo un giorno, giusto il tempo di organizzare il viaggio via terra verso la Cambogia… è alla frontiera, trasportando i miei bagagli a piedi per circa mezzo chilometro da quella thailandese a quella cambogiana, che entro veramente nel clima monsonico: l’impressione è quella di essere in un bagno turco. La frontiera a Poipet è desolante, povere capanne dominate da un enorme edificio… un Casinò. Il viaggio prosegue in autobus verso Siem Reap, la cittadina che fa da base per la visita di Angkor, uno dei maggiori siti archeologici al mondo.

A causa delle piogge abbondanti attraverso un mondo verde e acquatico. Il verde intenso delle risaie che sembra pennellato di fresco e quello più scuro delle palme che le punteggiano contrastano sullo sfondo del cielo scuro, temporalesco. La strada passa fra distese allagate dove uomini immersi fino al petto lanciano le loro reti, le case sono su palafitte, negli stagni si allevano anatre, i bambini giocano tuffandosi in acqua. In lontananza persone in bicicletta sembrano pedalare galleggiando su queste distese. Di tanto in tanto un bambino a cavalcioni di un bufalo… un’immagine, per me, altamente suggestiva. E’ forte il contrasto fra quest’animale poderoso, oscuro, che si lascia condurre da uno scricciolo di bambino… mi vengono in mente dei dipinti cinesi lievi, a china, visti in qualche museo.

Siem Reap è una cittadina cresciuta di pari passo con la notorietà di Angkor. La sua periferia ci accoglie con hotels enormi e vuoti… chissà se in alta stagione saranno mai del tutto occupati. Che siano un modo per riciclare del danaro non troppo lecito?

Il centro conserva degli edifici coloniali francesi ben ristrutturati. Case a due piani dalle tinte pastello, grandi arcate al piano terra, più piccole a quello superiore. I tetti spioventi dalle piccole tegole grigie e piatte rafforzano l’idea di Francia. Ma una Francia tropicale, con i ventilatori appesi al soffitto e piante tropicali nei grandi vasi sparsi fuori e dentro i locali. Dell’epoca francese è rimasta anche la possibilità di gustarne la cucina, annusare il profumo di baguettes e croissants nell’aria. La lingua coloniale è invece ormai dimenticata, quella del turismo ora è l’inglese.

ll monsone porta subito ad adattarsi al mondo dei tropici… adottarne i tempi e le abitudini rilassate. Ci sediamo ad osservare lo scorrere del fiume e quello del traffico di motorini, biciclette, tuk-tuk in uno di questi locali dall’atmosfera franco-tropicale.

Una birra fresca, un succo di frutta ghiacciato e un ventilatore sopra di noi rendono gradevoli la permanenza nel monsone.


Monsone, dall’arabo “mawsim”, “stagione”. La definizione include i maggiori sistemi di venti che cambiano direzione stagionalmente. Molti monsoni estivi spirano da ovest e sono ascendenti, producendo grosse quantità di pioggia a causa della condensazione del vapore acqueo. La loro intensità e durata variano di anno in anno. I monsoni invernali, invece, spirano principalmente da est e portano un’aria secca.